Ho conosciuto Roberto Guglielmi in un JobCentre di Finsbury Park, pochi giorni dopo la sua clamorosa uscita dai Take That. Le mani piene di moduli da riempire, la barba sfatta, una canadese Diadora grigia con un paio di Superga, Roberto era la brutta copia dell’immagine patinata e strafiga che lo star system gli aveva imposto per anni.
La fila avrebbe richiesto una buona mezz’ora e così, per alleggerire la durata, quel ragazzo a cui non avresti offerto una sigaretta decise di attaccare bottone con me che stavo dietro, pensando del perchè Londra non sia ancora arrivata alle finestre ad ante:
“And who pays all of this? Us!” “E chi paga tutto questo? Noi!” disse lui mostrandomi il bagaglio cartaceo nelle sue mani.
“We stay better when we stay worse!” “Si stava meglio quando si stava peggio.”
“Bad truth, man! My name is Robbie, nice to meet you.” “Brutta verità, vecchio. Il mio nome è Roberto, piacere di conoscerti.”
La mia amicizia con Roberto nacque con qualche luogo comune sui disservizi della burocrazia londinese, ma ben presto, per deformazione professionale di entrambi, non si potè che parlare di musica.
“But why are you here Robbie?” “Perchè sei qua Roberto?” gli chiesi io.
“Because I can’t be a solist! I’ve got lot of melodies but I’m a crap writing lyrics.” “Perchè io non posso essere un solista. Ho un sacco di melodie, ma sono una schiappa nello scrivere testi.”
“If you want, I can help you. I write poetries.” “Se vuoi posso aiutarti. Io scrivo poesie.”
“Some titles?” “Qualche titolo?”
“The best one is “Angels”, I wrote it in Cagliari in 1993. Then “Feel”, in 1994 in Rome.” “La miliore è “Angeli”, scritta a Cagliari nel 1993.”
Quanto capitò dopo tutti lo sanno ed inutile sarebbe specificare quanto fortunata sia stata quella fila al JobCentre per la carriera di Roberto Guglielmi. Per tre settimane lavorammo assieme nel fondere il suo estro sonoro con la mia vena poetica, finchè io dovetti tornare a Cagliari per il terzo anno di Liceo Scientifico.
Ci salutammo con la ripromessa di sentirci ancora, ma come spesso capita, nelle occasionali amicizie speciali di una vacanza, nessuno più ci pensò.
Questo è quanto c’era da anticipare. Perché sette giorni fa mi arriva una chiamata da un numero sconosciuto.
“Hi Gigi, it’s Robbie.”
”Robbie, the floor manager of the first floor?”
“No, Robbie Williams, do you remember those tiring night in my flat, trying to put your words in my melodies?” “No, Roberto Gugliemi, ti ricordi quelle stancanti notti nel mio appartamento, provando a mettere le tue parole nelle mie melodie?”
”Robbie!! How are you man? Almost ten years ago.” “Roberto!!!! Come stai vecchio? Quasi dieci anni fa!”
“Not too bad, Gigi. I call you because on Friday a friend of mine, an Italian friend of mine is celebrating his leaving from London. I want you with us.” “Non troppo male. Ti chiamo perché Venerdì una mia amica, italiana, celebrerà la sua partenza da Londra. Ti voglio con noi.”
“Perfect. I can’t wait to see you.” “Perfetto, non vedo l’ora.”
“Me too. I’ll always thank you Gigi.” “Anche io. Non smetterò mai di ringraziarti Gigi.”
“No problem, man. We are friends and, as you know, “friends will be friends” “Nessun problema, vecchio. Noi siamo amici e, come sai, “Friend will be Friends”
“I love that song of Freddie Mercury!” “Io amo quella canzone di Freddie!”
“His song? Do you really believe the words were his?” “Sua canzone? Credi veramente che le parole fossero sue?” lo dico pronunciando un sorriso.
“Oh my God, Gigi, you’re unbelievable!” “Oh mio Dio, Gigi, sei incredibile.”
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