E’ proprio vero, i Mondiali di calcio rendono tutti più buoni.
Ieri tornavo a casa dopo la partita e avevo indosso una maglietta azzurra con lo scudetto italiano davanti e la scritta “Italia” dietro. Ebbene sì, ero il tipico-italiano-a-Londra, mi mancava solo l’Invicta e oltretutto ho comprato quella maglietta da H&M, con uno sconto del 50% assente ne listino; questo per sottolineare quanto il Mondiale renda tutti più buoni. In mezzo al marciapiede, una coppia di ragazzi fermi a controllare il loro neonato nel passeggino. Si guardavano come due innamorati, o meglio, come due innamorati inglesi che hanno appena avuto un bambino e la loro squadra nazionale qualificata per gli ottavi. Per proseguire sono costretto a passare per la strada; il padre mi chiede scusa, “I’m sorry”, io dico che è tutto a posto, perché io sono contento per l’Italia agli ottavi quanto loro sono contenti per l’Inghilterra agli ottavi e io sono contento per il loro bambino quanto loro ne sono felici.
Continuo per la mia strada, ho le cuffie all’orecchio, il volume è medio. Sento una ventata di positività che mi avvolge da dietro e mi giro per rivedere la coppia, ma anche perché “sento” che erano rimasti in contatto con me. Infatti quando mi giro loro non sono chinati sul bambino, ma guardano me, evidentemente mi avevano già chiesto qualcosa che non avevo sentito (ogni tanto mi chiedo se qualche ragazza mi abbia mai fischiato per strada e io non l’abbia sentita per colpa della musica che ascolto) e che ora ripetono:
“What was the match’s score?” per un istante mi chiedo se avevo l’aria di uno che tornava da una partita, poi ricordo quale maglietta indosso.
“Two nil.” e mentre lo dico sorrido, perchè questi due ragazzi sono proprio felici, talmente felici da non poter aspettare di guardare alla Tv uno dei tanti risultati dei Mondiali.
“Two nil to Italy?”
“Of course.”
“Thank you” e di nuovo giù a guardare la loro creatura.
Quando sono sulla soglia di casa me li vedo passare davanti, il bambino non è più nel passeggino, ma è tenuto su dal braccio del padre, con una mano a reggergli la testolina. Chissà se tuo padre ti ricorderà da grande che l’anno della tua nascita fu anche quello della seconda Coppa del Mondo all’Inghilterra.
In realtà la maglietta l’ho comprata per fare lo scemo coi miei colleghi. “Basta” ho detto. Passino le bandierine che sventolano dai finestrini delle macchine; passino le poltroncine gonfiabili con lo stemma dell’Inghilterra che vendiamo a metà prezzo nel negozio; passino i titoloni del Sun da far sembrare l’Inghilterra la squadra più forte dell’universo. Ma la lattuga no. Quando ho visto lo stemma inglese nell’involucro della mia insalata ho detto “Basta, devo difendere i miei colori, nel nome di Mameli!” E il giorno dopo sono andato al barbecue del negozio con la maglietta già descritta.
Per prima cosa ho chiesto ad alcuni colleghi di baciare lo scudetto italiano. Daniel K. mi ha fatto la faccia schifata. Emma, che è svedese, mi ha ripetuto per tot volte che “Totti is a bad person”; si ricordava lo sputo rifilato a Poulsen durante gli ultimi Europei. Daniel O. mi ha detto testuali parole: “Fuck you, you kiss my cock!”; era ubriaco. Durante i Mondiali sono tutti più buoni, eccetto quando difendi l’onore della tua squadra. De Rossi lo nomina Paul e ha una faccia delusa nel mimare il gesto per cui è stato espulso. Alla fine li vedo tutti giocare a pallone nel quadrato di erba davanti al quale mangiavano tutti i membri dello staff Hamleys. E guardavo Daniel K, mia età, floor manager del piano terra, un Carlo Verdone made in London. Un pallone davanti, la maglietta celebrativa dell’unico Mondiale vinto, l’ennesima bottiglietta di birra in mano offerta dal negozio e l’Inghilterra in marcia verso una finale sicura (così sembra). Daniel K. e il giorno più bello della sua vita.