L’ho capito verso Luglio.
L’unica maniera per continuare a divertirmi come dimostratore di giocattoli è prendermi poco sul serio e stravolgere i normali rapporti tra adulto e bambino e tra adulto e adulto.
Dimostrare lo stesso giocattolo per sei ore al giorno, quattro/cinque giorni alla settimana, può essere effettivamente noioso, come stasera mi ha detto una ragazza italiana (il cui ragazzo invece mi ha chiesto se gli tenevo un posto in negozio per quando sarebbe tornato). E dopo tre mesi, verso Giugno, lo stava diventando. Poi ho capito.
Ora mi esalto con ogni bambino, batto cinque a quelli più vivaci e quando la dimostrazione finisce in successo, coi sei bersagli colpiti e abbattuti (cosa che riesce sempre perchè o indirizzo io l’arma o faccio cadere i bersagli con un bastoncino), il mio WOOOOOW echeggia per il piano. Il WOOOOW di sorpresa è un esclamazione che nei toni e nell’espressione facciale (ossia enfatizzazione labiale della U e della A) ho preso in prestito dal mio zio d’America, quello che quando ero piccolo vedevo molto poco e ogni volta mi regalava tutto ciò che chiedevo. Quando gli raccontavo le cose, quando gli mostravo i miei giochi, era un continuo WOOOOOOW ( da pronunciare proprio UAO ) e io capivo, sì, che era un entusiasmo forzato, però mi soddisfava, mi piaceva la faccia che faceva nel dirlo, mi piaceva quell’enfasi così sproposita da capire che stesse fingendo.
I bambini spesso mi ridanno il giocattolo e tornano contenti dai loro genitori, braccia in cielo, e dicono:
“Dad, I knocked ALL them down!”
Dad: “DID YOU?”
Io: “WOOOOOOW!!!!!”
Allora, fissiamo i paletti.
Coi bambini fino ai sei anni il mio WOOOOOW è quasi spontaneo, perchè sono così felici da non poter non rimanere coinvolti nella loro gioia.
Coi bambini oltre i sette anni diventa il WOOOOW diventa entusiasmo forzato, con cui io mi prendo poco sul serio, spesso ridicolizzo teenagers che vogliono solo fare i fighi e salvo dimostrazioni altrimenti noiose.
Con gli adulti che provano il giocattolo il WOOOOW si forza all’inverosimile, perchè la regola (ereditata dalla mia collega Kasia) è trattare il genitore come se avesse quattro anni. Inizia tutto quando un adulto guarda i bambini che provano, ma non sorride, rimane serioso e io mi rivolgo a lui:
“Don’t be jealous, you’ll be next!”
La faccia seria, quando va bene, esplode in una risata e quando va male rivela un sorriso. Poi provano e io a incitarli come se fossero bambini:
“WOOOOOW! AMAZING!” mi rivolgo alle mogli “HE’S GOOD, ISN’T HE?”
Ho fatto provare signore impellicciate, ingioiellate, ho fatto provare arabi impostati e seriosi, ho fatto provare nonne col bastone e i capelli bianchi bianchi e se non ci è riuscita la situazione – giocare con un fucile giocattolo davanti ad una folla di sconosciuti – sono stato io a sciogliere le loro facce e farli sorridere come bambini.
In questi giorni ho comprato una spilla con scritto “I’M 13” (qui a Londra i bambini le indossano il giorno del loro compleanno) e l’ho attaccata alla maglietta; niente di più divertente, credetemi. I bambini la guardano e poi alzano lo sguardo sul mio viso, la faccia perplessa di chi non esclude la possibilità di trovarsi davanti ad un mostro tredicenne con gli ormoni impazziti. Oggi una bambina ha notato la spilla, si è aggrappata alla madre e all’orecchio le ha riferito quanto c’era scritto.
Io, sorridendo. “What?”
La bambina: “Are you really 13?”
Io: “No, it’s only a joke!”
La bambina: “Ahhhh!”
Io: “Unfortunately I’m already 17!”
La madre si piega in due dalle risate.
Io pure.
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