Tre persone in un pub mi hanno chiesto di raccontare loro qualcosa sulla mafia.
Non ero pronto a questa domanda, non mi era mai successo a Roma.
Non mi chiedono una cosa specifica. Dicono la parola “mafia”, ed è come se dal nulla dovessi raccontare tutto quello che so.
E all’inizio quasi mi offendo, perché l’argomento è venuto fuori troppo presto, tra un “da quanto tempo vivi a Londra” e un “come ti chiami”, eppure, a pensarci bene, quando ho conosciuto un tipo iracheno non ho esitato neanch’io a fare la mia bella domanda stronzetta a proposito della guerra.
Così supero la fase dell’incazzamento, deglutisco, sorrido nervoso, e mi dico: «Ok, adesso hai il potere di creare, in cinque minuti e nel tuo broken english, il concetto di mafia nella mente di questo perfetto sconosciuto».
Mi passano per la mente le immagini di Blu notte, le fotografie di Letizia Battaglia, i film su Falcone alle scuole elementari, le puntate di Pif su Addiopizzo.
Il tipo davanti a me ha ancora un mezzo sorriso di cortesia e sta sorseggiando la sua terza pinta.
Così comincio: «La situazione in Sicilia è abbastanza diversa dalla mafia che hai visto in film come Il Padrino. Ci sono ancora quegli uomini d’onore, ma non siamo più ai tempi dei gangster né quel genere di omicidi. Oggi la mafia fa più affari che omicidi».
Mi rendo conto di parlare come una puntata di Quark. Allora cerco di pensare a qualcosa di più personale. Ed è più o meno a questo punto che il sangue mi ribolle dentro, e mi vengono in mente immagini che avevo sotterrato in qualche angolo della mia mente.
Ripenso a quando facevo a botte per giocare a pallone vicino casa.
Ai bambini che minacciavano di ammazzarmi.
Al primo “fermo” al Giardino Inglese.
Alle volte che davo i soldi ai posteggiatori abusivi.
Alle volte che ho litigato con i posteggiatori abusivi.
All’incidente d’auto al Capo con lo spacciatore di turno.

«Sinceramente penso che il problema non sia la mafia. La mafia non potrebbe esistere senza uno strato molto, molto più grande su cui ha messo le sue radici, che è la cultura mafiosa. In Sicilia viviamo tutti a stretto contatto con questa cultura: o favorisci qualcuno, o ricevi un favore. O qualcuno ti nega qualcosa che ti spetta, o lo neghi tu a qualcun altro. Chi subisce un torto non si ribella più di tanto perché sa che prima o poi arriverà il suo turno di fare un favore o riceverlo».
Così l’ho detto.
Una cosa abbastanza grave, credo.
Una cosa che forse tutti danno per scontato, o che viene ignorata, o che non si conosce. Sinceramente non ne ho idea. Sette anni fa non parlavo di queste cose con i miei amici di Palermo. Non mi interessavano. Non c’erano associazioni come Addiopizzo che cercavano di risvegliare gli animi. Le cose saranno cambiate adesso?
Lui fa un mezzo sorriso di nuovo, con l’aria di chi ha capito tutto.
Sorseggia un altro po’ di birra, poi chiede: «E che lavoro fai qui a Londra?».
Sorrido e bevo un sorso anch’io.
Mi sento un po’ frastornato dalla serie di emozioni che ha provocato quella domanda: stupore, rabbia, delusione. Ho una gran voglia di dire scusa a quell’iracheno a cui avevo chiesto della guerra.
Certe cose sono molto complicate da spiegare, e sinceramente non credo che si potranno mai eliminare del tutto.
Eppure questo non mi discolpa affatto.
È stato fin troppo facile conviverci tutti i giorni, ignorando la loro esistenza.

Luca Panzarella
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