Tommaso Moro e John Fisher sono una sfida al senso comune e la loro vita – come la loro morte – colpisce ed emoziona anche ai nostri giorni. Il primo giunto ai vertici della carriera politica, giurista brillantissimo, scrittore di fama europea; il secondo influente vescovo e poi cardinale e teologo di punta.
Entrambi vicini alla Corona d’Inghilterra e ivi tenuti in massimo conto; entrambi esempi di non comune onesta’ e integrita’ personale; entrambi accomunati dalla scelta di rinunciare a benessere, fama, influenza e di saper sacrificare anche la vita, per la difesa di cio’ in cui credono.
La parabola dei due e’ parallela nell’ascesa e nel declino. Per entrambi, una posizione di grande prestigio raggiunta sotto Enrico VII viene inizialmente mantenuta e migliorata sotto Enrico VIII. Per entrambi, le dispute tra quest’ultimo e il papa riguardo all’annullamento del divorzio da Caterina d’Aragona causano la caduta in disgrazia e la perdita di influenza a corte; per entrambi, il rifiuto di accettare incondizionatamente l’Atto di Successione e dunque la legittimita’ del susseguente matrimonio con Anna Bolena significa la morte.
Piu’ di cinquecento anni dopo, puoi andare sul lungofiume di Chelsea e sostare un attimo davanti alla statua di Tommaso Moro. Ricordi di terza Liceo, di una Roma assolata, di una gioventu’ che cresce e comincia a radunare lo scontato cumulo di sogni e di speranze e a prendere le prime cornate con la realta’, che sono le piu’ dure.
Piu’ di venti anni e molte cornate dopo, Tommaso e’ li’ davanti a me, severo ma senza intimidire, seduto in modo decisamente troppo composto. Penso al mio vecchio professore di Storia e Filosofia, la pipa sempre in azione sotto al naso aquilino, un’intelligenza acutissima e che voleva essere cinica e non ci riusciva mai, il piacevole accento romano appena troppo compiaciuto della propria romanita’ e una vasta cultura a beneficio delle giovani generazioni. Anche di quelli, come me, che erano tutto il contrario di lui per carattere e orientamento politico, ma con i quali l’amore condiviso per la storia e per chi ha degli ideali sentiti e sinceri creava un terreno comune.
Me lo immagino, adesso, in piedi vicino a me, che osserva il monumento emettendo le consuete nuvolette e mi dice col consueto fare romano, forse appena troppo affettato: “qualcuno ti dira’ che gli uomini agiscono solo per interesse” (la solita pausa studiata…. le boccate dalla pipa…poi la nuvoletta…..) “nun je da’ retta, Robbe’……….. nun je da’retta…”.
Oggi sono qui, a pensare a John Fisher e Tommaso Moro; a ricordare il passato e a mischiarlo col presente; a portare il mio omaggio – e quello del mio vecchio professore, il finto cinico – a due martiri della Fede e campioni delle proprie idee.
Vicino alla Torre di Londra, di la’ della strada che porta a Westminster, c’e’ una piazza con un piacevole giardino. L’estate, durante la pausa pranzo, e’ tutto uno stravaccarsi al sole di impiegati paciosamente intenti alla ricarica delle batterie. Oggi si chiama Trinity Square, ma il posto una volta era noto come Tower Hill ed era il luogo prescelto per le esecuzioni dei prigionieri eccellenti della vicina Torre.
In un angolo del giardino, assai poco appariscente e quasi vergognoso, un piccolo rettangolo. E’ circondato da tre lati da delle lapidi basse che recano i nomi di alcuni tra coloro che cola’ dovettero osservare la fredda ascia del boia in attesa di essere messa al lavoro su di loro. Tra i nomi, tutti di spicco, risaltano i nostri due amici, John Fisher e Tommaso Moro. Entrambi trovarono li’ la loro fine, entrambi furono dignitosi e orgogliosi di essa, entrambi a poche settimane di distanza scelsero di pagare il prezzo delle loro idee, ricordandoci che e’raro che le idee vengano gratis e che c’e’ gente disposta a pagare il prezzo piu’ alto anche se costa la rinuncia a fama, potere, vita.
Tommaso Moro e John Fisher sono stati canonizzati nel 1935, nel quattrocentenario del martirio. Non se ne parla molto ,oggi, se non in qualche libro di storia o documentario di UKTV History. Ma come sempre, la Storia e’ li’ a parlarci di loro e un po’ anche di noi; di cosa vogliamo essere, credere e portare nel cuore.
E io, venti anni dopo e con i primi fili bianchi, mando un affettuoso pensiero lontano, lontano e dico: no, Professore, sono passati piu’ di vent’anni e non ho dato retta.