Aga è polacca e la scorsa settimana il suo ragazzo, polacco anche lui, le ha regalato l’anello di fidanzamento. Venerdì ci sarà il suo party d’addio. Tornerà in Polonia per studiare. “Ti capisco” mi ha detto, quando ho sfogato la saltuaria insofferenza di una vita vissuta alla giornata, senza costruire nulla per il mio futuro “neanche io voglio passare la mia vita a fare la commessa per un negozio di giocattoli.”
Jelena è australiana e l’anello al dito l’ha messo due mesi fa. Il suo ragazzo si chiama Daniele, è di Cerveteri. Si sono conosciuti quattro mesi fa nel quarto piano del negozio e il 7 Maggio del 2007 si sposeranno a Sidney, dove andranno a vivere. Mentre io ero a Cagliari lei ha passato un weekend a casa di lui. Vorrebbe vivere in Italia perché ora, oltre ad essere innamorata di Daniele, ha perso la testa anche per la sua famiglia.
Gianluca è di Cagliari e prima che partissi aveva iniziato a frequentare quello che rimaneva del mio gruppo di amici. In un botto ho saputo che si è sposato con una ragazza slovacca, è andato a vivere a Bratislava e ora aspettano un bambino.
Un tempo era stato il funerale del padre di una mia amica a farmi pensare che stessi invecchiando. Ma i genitori muoiono a qualsiasi età, anche quando si è bambini. I matrimoni invece sono un chiaro segno: stiamo iniziando a scavare la nostra fossa.
Se Aga si è ufficialmente fidanzata, se Jelena inizia i preparativi del matrimonio e Gianluca cerca un lavoro a Bratislava per mantenere la futura famiglia, io vivevo un menage a trois con due sorelle musulmane. Vale la pena riempirci qualche riga.
Di Mona avevo già parlato. La dolcissima ragazza musulmana del piano terra che scrisse il mio nome coi cuoricini al posto dei puntini delle i e col vezzo di arrotolarsi l’hijab sopra l’orecchio quando è in imbarazzo. Una delle più belle ragazze del negozio. Una sera uscimmo insieme e mi parlò della sua famiglia. Mi disse di avere una sorella, Amal, e due sorellastre e di vivere con la madre e il patrigno. Il padre, invece, si è trasferito in Arabia Saudita.
Da due mesi anche Amal lavora in negozio. Al terzo piano. Il primo giorno che l’ho notata non ho pensato fosse la sorella di Mona. È bella anche lei, ma in modo diverso. L’unica cosa che avevano in comune era l’hijab sulla testa, indossato nella maniera che, da quanto poi mi ha detto, va molto in questo momento tra le giovani mussulmane. A dir la verità un’altra cosa ha avuto subito in comune con Mona: ero io. Come lei, che mi iniziò a fissare dal primo giorno di lavoro, anche Amal non ha perso tempo. Sguardi e sorrisi fin da subito.
Ho conosciuto Amal mentre camminava al piano terra con Mona. Ci siamo presentati.
“Lo sospettavo che era tua sorella. Al terzo piano c’è la scia del tuo stesso profumo.” ho detto a Mona. Quando lavora sento prima il suo profumo e poi vedo lei. E quando non la vedo la cerco, perché la scia rimane. Hanno riso entrambe. Non ho mai visto sorrisi così belli in vita mia. Hanno riso come comari. Qualcosa mi ha fatto pensare che di me avessero già parlato.
Pochi giorni dopo ho pranzato con Amal. Una delle prime che le ho chiesto:
“Ma tu mi conoscevi già prima di iniziare a lavorare qua?”
Mi conosceva già. Mona mi aveva descritto come un “nice boy”. E fin qui ci stava. Le sorelle sono sempre amiche e complici. Poi mi ha detto che anche la madre mi conosceva. La madre. Mi sono immaginato Mona seduta a tavola con tutta la sua famiglia a parlare di me che le sorrido, di me che le offro un cappuccino, di me che dimostro, di me che cammino. E magari anche il papà in Arabia Saudita ha saputo del “nice boy” di cui la figlia si è invaghita. Mona è timida e tutto quello che non mi ha mai voluto dire l’ha detto alla sua famiglia. Amal è molto diversa. È più sfacciata e più maliziosa.
Durante il pranzo mi ha riempito di complimenti come poche ragazze hanno fatto alla prima chiacchierata con un quasi conosciuto. Se tutto il mondo è paese, mi stava corteggiando. Ha detto che le piace la fossetta che ho nel mento, ha detto che le piace il mio accento italiano, ha detto che le piace la mia calligrafia. Mentre parlava si è passata la vasellina sulle labbra almeno tre volte. Prima di alzarci si è sistemata lo hijab allo specchietto, si è spruzzata un po’ di profumo addosso e ha chiuso una borsa piena di tutto.
Da quel giorno, ogni volta che sono passato per il terzo piano, Amal si è sempre avvicinata per parlarmi. Alla vigilia della mia partenza per l’Italia ha detto:
“I’m gonna miss you.”
Sono tornato a Londra Venerdì scorso. Sabato io e Amal ci siamo dati appuntamento alle cinque nella sala riposo del negozio. Quando è arrivata ho sentito il profumo addirittura prima che si sedesse. Più che una scia era una bolla di profumo. Se l’era messo prima di raggiungermi. Mi ha detto di aver sentito la mia mancanza. “Anche io”, le ho detto.
Non so come, ma ad un certo punto abbiamo parlato delle nostre vite sentimentali.
Lei mi ha detto di aver avuto un solo ragazzo nella sua vita. Lo vedeva una volta ogni settimana, perché non voleva stufarsene. E perché si considera una ragazza indipendente. Quando parlavo io mi apostrofava ogni frase con un “is it?”. E come se voi parlaste del più e del meno con una persona che commenti sempre le vostre parole con un “davvero?”. Alla lunga ti chiedi se sei veramente così sorprendente o se ti stanno prendendo per il culo. Dopo quella mezz’ora qualcosa non mi tornava però.
Prima di uscire dal negozio sono passato al terzo piano per salutare Amal. Ho fatto finta di darle la mano e le ho fatto scivolare un biglietto sul suo palmo. Avevo scritto:
“I still wonder how such an indipendent girl could miss me so much.”
Presuntuoso, is it?
Me lo sono chiesto più di una volta, prima di scrivere quel biglietto, quale fosse il fine di quel gioco. Da quando io e Amal abbiamo iniziato a giocare Mona mi ha tolto parte di quei sorrisi con cui mi accoglieva ogni volta. A parte quello (che poi sono questioni loro) non ho mai pensato di andare oltre al puro semplice gioco. Fin quando si parla, in fondo, le regole non esistono. Ogni parola può valere tutto e il contrario di tutto. Ma se baciassi Amal so già che dovrei stabilire le regole di un nuovo gioco. Lei è mussulmana, io ho smesso di credere anche in Shevchenko, quale casino uscirebbe da una storia con lei? Dovrei chiederle cosa mi è concesso fare prima di essere costretto a convolare a nozze con lei? Dovrei chiederle cosa non dovrei fare per evitare qualche rogna? Sarebbe come se volessi partire per qualche paese arabo e dovessi leggere tutto ciò che è lecito e illecito indossare, dire, portare etc.etc. La vorrei considerare una ragazza come tutte quelle avute finora, ma non posso. A ricordarmelo sono i capelli che non le ho mai visto, le orecchie che non le ho mai visto, il mento e il collo che non le ho mai visto. Se non posso è perché so già che non riuscirei a baciarla senza poterle accarezzare i capelli, le orecchie, il mento e il collo. Dovrei parlarci. Ma non è l’ambasciata italiana in Siria, che chiami e ti informa su cosa indossare, cosa dire e cosa portare. E’ una ragazza di vent’anni. E come ogni storia che ho avuto, mi è sempre parso brutto stilare le regole.
Ad ogni modo ho come l’impressione che il mio biglietto abbia rotto certi equilibri. Mona mi ha quasi tolto lo sguardo. Non se ne perdeva uno. Inoltre si è licenziata e quando le ho chiesto perchè non mi ha voluto rispondere. Amal, per la prima volta, non si è avvicinata mentre ero nel suo piano. Dopo avermi salutato è rimasta di spalle a sistemare le sue cose. Mi chiedo dove siano arrivate, nel loro privato. Si sono azzuffate? Ha sancito tutto la madre? Hanno giurato completa indifferenza al sottoscritto? Se ci penso sorrido. Conto quante migliaia di ragazze avrei potuto colpire in questo modo e sorrido che di tutte quelle, mi sia incastrato ironicamente con due bellissime figlie di Allah.