In treno con noi, alla fine del concerto, c’è una famiglia. I genitori sono due persone normali, due quarantenni che vedreste il sabato pomeriggio al supermercato, con il carrello carico delle provviste per la settimana. La figlia avrà otto, nove anni. I capelli sono raccolti ai lati da due lunghe trecce; sopra sono incollati in una lunga cresta; nella maglietta campeggia la copertina del quarto album dei Rancid, LIFE WONT WAIT. Il figlio avrà dieci, undici anni. I suoi capelli, tinti di rosso, sono tutti sparati in aria; i pantaloni attillati hanno una fantasia scozzese a quadri, su sfondo colore rosso. Questa famiglia è un fenomeno. Immagino i loro genitori alla mia età, punk duri e puri con la passione per un gruppo appena emerso nelle scene musicali come perfetto erede dei Clash e dei Ramones. I Rancid. Forse anche loro si facevano le cassette con le compilation delle loro canzoni migliori. Forse anche lui li aveva fatti conoscere a lei. Forse anche lei li cantava durante i viaggi in macchina.
Due ore prima il palco si oscura davanti a me, a pochi metri dalla transenna. Stuart è dietro.
“Soon! Very soon!” non smette di dire. Poco prima scherzavamo su un tipo con la cresta rossa, il chiodo con gli spuntoni e gli anfibi pesanti. Abbiamo immaginato che all’uscita ci fosse la mamma ad aspettarlo in macchina, abbiamo immaginato che la madre lo rimproverasse per il ritardo e lo minacciasse di andare a letto senza cena. Con Stuart il mio inglese riesce brillante come l’italiano.
Su un amplificatore è poggiata l’insegna ARMSTRONG AVE. Su altri due amplificatori la marca MARSHALL è coperta, in modo da lasciare solo il nome LARS (Tim Armtrong e Lars Fredericksen sono i due front-men dei Rancid). Il palco si oscura, il mega schermo si accende e passa in rassegna le copertine dei loro album. Entra Tim, con il suo cappellino, un gilet di pelle, jeans e Gazzelle. Attacca da solo, come anche nell’album, la canzone RADIO. Dopo quindici secondi l’attacco finisce, subentra il basso, la seconda chitarra e la Brixton Academy esplode. È una delle canzoni che ricordo ancora un po’ a memoria e la urlo saltando, dito puntato verso Lars, a dieci metri da me. A Marzo lo avevo incontrato nella stazione di High Street Kensington: aspettava la metropolitana. Indossa un abito gessato e le All Star nere che indossiamo sono l’ennesima conferma di una sintonia che dura da dieci anni (quando comprai …and out come the wolves notai che Lars, ritratto nella copertina, indossava lo stesso paio di anfibi da me comprato poco prima).
Dopo Radio è Lars a cantare ROOTS RADICALS. Mi giro e vedo Stuart che poga dall’altra parte. Davanti a me una cicciona punk mi abbraccia e cerca il collo per un bacio. È solo una delle tante. Le creste che vedo intorno sono da antologia, i giubbottini di pelle qualcosa di trovabile solo nei negozietti di seconda mano. Un ragazzo ha i capelli tinti a macchia di leopardo. Un ragazzo si è tatuato LIFE WONT WAIT sul petto. Mi chiedo se la canteranno. Ripenso a quando Lei la cantava in macchina. La cicciona, non so perché, mi ha preso la maglietta e inizia a tirarmela. Alla terza canzone è già bagnata di sudore. Qualsiasi traccia di asciutto si perde durante JOURNEY TO THE END OF THE EAST BAY. È il delirio. Iniziano a volare le persone. Io non smetto di fissare Lars e Tim.
Li ho conosciuti dieci anni fa, nel 1996. Comprai l’album perché la ragazza per cui avevo perso la testa mi aveva chiesto se li conoscevo. Le risposi di no e non persi tempo per avere un buon motivo per rivolgerle la parola. Quando tolsi il CD dalla bustina e riguardai la copertina mi convinsi di aver buttato i miei soldi. C’era un punk con la cresta seduto su un gradino. Io mi pettinavo ancora i capelli con la riga in mezzo. Quando ascoltai le prime canzoni la voce roca dei due cantanti mi spaventò. Pochi mesi prima avevo comprato il cd delle Spice Girls. Poi lo ascoltai una volta. Due. Tre. Lo sdoppiai su cassetta per ascoltarlo anche nel walkman. Dopo quel cd cambiarono un po’ di cose.
Era l’età in cui si passava dall’anonimato ad una identità vera o presunta. Buona parte della mia classe era stata assorbita dalle discoteche; lo scooter regalava a molti ragazzi una popolarità prima insperata; gli occhiali da sole Oakley avevano soppiantato i Rayban e i capelli lunghi con la riga in mezzo erano considerati molto fighi. I metal indossavano le magliette dei Blind Guardian,leggevano libri fantasy e avevano tutti il loro gruppetto musicale. Gli hip hop navigavano nei loro pantaloni e camminavano molleggiati con le mani nelle tasche. Il punk non era molto considerato. Io non scelsi quella strada; fu la musica a trascinarmi.
La riga in mezzo scomparve, accorciai i capelli e li sparai all’indietro. Dopo le forbici e il gel venne il turno di acqua ossigenata, decolorante e tinte di vario colore. L’abbigliamento si fece particolare, se non altro avevo smesso di spendere 40000 per una maglietta Calvin Klein. Mi innamorai di una felpa grigia Benetton, con una fascia azzurra ad altezza petto e un’altra, rossa e gialla, sulle maniche. La mania per le felpe e i maglioni a righe nasce proprio da allora. A 17 anni volevo l’anellino al naso e dopo due tentativi falliti (leggi infezione al naso) me lo sono fatto una terza e ho avuto ragione io. Me lo sono tolto al terzo anno di Università. All’ultimo anno di liceo me la tiravo da genio svogliato e ribelle. Quando la prof di Italiano mi chiese una tesina sui Malavoglia io risposi che non l’avevo fatta perché era una noia mortale. La musica mi aiutava ad uscire, spesso in maniera ridicola, da un guscio in cui ero rimasto chiuso per tutta la vita. Il nichilismo non mi apparteneva. L’anarchia neppure. Non vissi mai questa passione in maniera estrema.
Non sono mai diventato un alcolizzato, per esempio.
La cresta non mi è mai passata per la testa. Quando mi sono tinto i capelli di blu mi sono sempre coperto la testa con un cappellino, per la vergogna.
Rimanevo uno pseudo-punk, ma la collezione dei miei gruppi preferiti era completa e i testi dei Rancid erano nella memoria come le regole trigonometriche con cui tenevo alta la mia media di Matematica.
Se mi aveste chiesto allora quale fosse la canzone più bella del mondo vi avrei sicuramente risposto TIME BOMB. Ska-punk. Mentre la cantano mi passa in mente molto di questo passato. Ho pensato anche ad una mail della persona a cui ho trasmesso la passione per i Rancid, ricevendo in cambio quella per altri gruppi:
“Ho appena scaricato il video di Time Bomb!!!!”
Per ultima hanno suonato RUBY SOHO. Mi ci è voluto l’ultimo sforzo per poterla godere in pieno. Quando è finita, dopo i ringraziamenti, Tim ha poggiato la chitarra ed è sceso sotto il palco. Ha iniziato a salutare la gente in prima fila, tra cui ero finito per caso anche io. Il mio braccio si è sporto oltre la transenna. Lui si autoscattava foto con le macchine che trovava davanti. Mentre mi ha stretto la mano l’ho fissato attonito. Per due anni ho tenuto un poster dei Rancid attaccato alla porta e ricordo ancora l’espressione cattiva, incazzata del suo viso. Da quel poster ho annullato tutte le distanze: un foglio di carta appiccicato sulla porta è diventato il punk rocker in persona, la posa imposta dalla foto è diventata la simpatia di un quasi quarantenne che scherza coi cellulari, stringe mani e non smette di ringraziarci.
Avete presente una di quelle esperienze da metterci la croce sopra come “cose da fare prima di morire”?
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